venerdì 30 marzo 2012

Caspie - Ritardi e Indennità

Con la consueta abilità, l’Amministrazione ha rimbalzato sulle lavoratrici e sui lavoratori l’onere di far rispettare il contratto tra la Banca d’Italia e un terzo, nel caso specifico la Caspie.

A fronte delle numerose lamentele sulla gestione della copertura sanitaria, motivate soprattutto da ritardi nei rimborsi che vanno ben oltre la fisiologia e la ragionevolezza, l’Amministrazione scrive alla Caspie per dirle di dover calcolare il tempo limite di rimborso (50 gg.) dalla ricezione della richiesta. In realtà, era tutto già scritto da anni sulla convenzione sottoscritta da Banca e Caspie. Aggiunge, la Banca, che il tempo limite così calcolato è da tenere presente anche “al fine della corresponsione dell’indennizzo previsto dalla citata convenzione per il ritardato rimborso”: indennizzo che non ci risulta sia mai stato corrisposto ad alcuno. 

Traducendo: è vero che la convenzione con la Caspie prevede che “nei casi eccezionali in cui il rimborso non possa avvenire nel previsto termine di 50 gg, la CASPIE corrisponderà una maggiorazione automatica del rimborso – a titolo di risarcimento danni e sanzione forfetaria – pari allo 0,0026% per ogni giorno di calendario”. Spetta però solo ai lavoratori controllare quel che combinerà la Caspie.

Ora, sorgono alcune domande “basilari”:
  • chi lo firma il contratto con la Caspie? Il singolo lavoratore o la Banca?
  • perché la Banca non si dota mai di strumenti di controllo per monitorare l’andamento degli appalti milionari che assegna?
  • come fa il collega a conoscere “la data di ricezione” della Caspie, per poter calcolare i 50 gg. di scadenza termini per il rimborso?
  • ammettiamo poi che il collega sia illuminato in sogno, e venga così a conoscere la data di ricezione; nell’ipotesi che la Caspie non corrisponda “automaticamente” alcun indennizzo, a chi si dovrebbe rivolgere il collega per ottenere quanto spettante? Alla Caspie? E in che modo, dal momento che telefonare al Numero Verde è un tantino più complicato che conversare con Barack Obama? E con quale rapporto di forza, trattandosi di un collega lasciato solo di fronte a una compagnia assicurativa di dimensioni impari?
  • e l’Amministrazione, pensa di aver esaurito il suo dovere con quella letterina, o dovrebbe mettersi a disposizione dei colleghi, oltre ad attivare tutti gli strumenti di legge per tutelarli?
Indubbiamente, lo scaricabarile è un gioco molto diffuso. Ma siccome dentro il barile, guarda il caso, vogliono farci finire gli assicurati, il SIBC invita tutti i colleghi a verificare (tenendo conto di un tempo minimo di giorni intercorrenti tra spedizione e ricezione) il riconoscimento delle indennità dovute per ritardato rimborso. In caso di contestazione, invitiamo a scrivere per conoscenza anche alla casella funzionale del Servizio PINE (pine.serviziperilpersonale@bancaditalia.it), nonché al proprio sindacato di appartenenza, o direttamente al SIBC (segreteria@sibc.it).

mercoledì 21 marzo 2012

Art. 18 - Pagano i lavoratori

Il Sindacato Indipendente Banca Centrale ritiene grave la scelta del Governo Monti di limitare drasticamente le tutele previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Una scelta nient’affatto “tecnica”, ma eminentemente “politica”, che rappresenta il vero obiettivo dell’altisonante “riforma del mercato del lavoro”.

 
Un progetto che apre la porta a licenziamenti per “motivi economici”, che (tanto più in una situazione critica come l’attuale) si tradurrà in una pericolosa spirale di “rimozione” dal lavoro di donne e uomini che hanno la colpa di NON essere responsabili di alcuna delle piaghe che affliggono il Paese.

Il S.I.B.C. tornerà presto sull’argomento, ma sin d’ora vogliamo esprimere totale condivisione per ogni forma di protesta civile contro l’ennesimo scippo di diritti - per quanto imbellettato - ai danni dei lavoratori italiani.

LA SEGRETERIA NAZIONALE 

mercoledì 7 marzo 2012

8 marzo, ancora?

C’è da chiedersi perché l’8 marzo 2012 ci sia ancora da parlare di “donne e lavoro”
Non è una domanda oziosa: è necessario interrogarsi sulle ragioni per le quali tanti anni di studi, riflessioni, battaglie ed evoluzioni del pensiero non abbiano condotto a un positivo cambiamento della realtà che ci circonda.
Se si guarda alla condizione lavorativa della donna oggi, sembra di guardare una diapositiva del dopoguerra: le donne vengono pagate meno degli uomini a parità di mansioni, vengono espulse dal mercato del lavoro senza tutele appena restano incinte e non vi rientrano, quelle che non vengono espulse vengono demansionate, e quelle che comunque “riescono”, non sfondano il c.d. “soffitto di cristallo”: non abbiamo segretari di partito donna, non abbiamo presidenti di cassazione donna, non abbiamo presidenti di ordini professionali donna, non abbiamo grandi imprese guidate da donne (salvo per via ereditaria): perché? Grazie alla recente riforma delle pensioni, molte donne rimarranno anche senza pensione. Perché in un sistema contributivo, se nel mondo del lavoro ci entri tardi e non ci resti abbastanza, anche se la cosa non dipende dalla  tua volontà, la pensione non la vedrai mai.
Quindi, ricapitoliamo. Come siamo arrivati a questo punto?
La risposta più facile è che le donne non sono abbastanza brave. Diciamolo, è un’ipotesi di lavoro. La situazione è questa perché le donne e il lavoro non stanno bene insieme, sono un piatto di nouvelle cuisine poco riuscito, che fa schifo a tutti ma quelli radical chic dicono che è originale e tu sembri uno zoticone se dici che preferisci la pizza. Quindi diciamolo, senza falsi pudori: se il ritratto dell’Italia lavorativa del 2012 è ancora questo, una possibile ragione è che sia colpa delle donne, che restano incinte, non lavorano abbastanza o abbastanza bene. Tutte. Molto meglio tornare a un mondo semplice, in cui le donne stanno a casa e si occupano di pulizie, bambini e anziani, che lo sanno fare così bene e poi i soldi per queste cose lo Stato non ce li ha, così liberiamo anche posti di lavoro, che comunque sono pochi.

Vi piace questa risposta? Vi sembra vera? 
 Se non vi piace, se non vi sembra vera, allora dobbiamo cambiare ipotesi di lavoro, e dire che la direzione che ha preso questo Paese da tempo non funziona, e la situazione delle donne ne è l’emblema e non riguarda solo loro. Le donne sono la metà della popolazione e il loro malessere è la cartina di tornasole del malessere del Paese, un Paese nella cui Costituzione, all’art. 1, c’è scritto che è basato sul lavoro, non sull’impresa, non sulla proprietà, ma proprio sul lavoro, e non consentire alla metà della popolazione di lavorare con pari dignità significa avere la metà della popolazione costituita da cittadini di serie B.

Allora proviamo a dire che questo Paese deve fare scelte nuove, capaci di dare risposte intelligenti e creative che siano in grado di farci ripartire, tutti: perché nella rincorsa al ribasso cui stiamo assistendo siamo tutti perdenti, donne e uomini.
Diciamo che vanno duramente punite le imprese che licenziano le donne solo perché sono rimaste incinte, con la stessa brutale sollecitudine con cui è stata bruscamente innalzata l’età pensionabile. Diciamo che, con i soldi risparmiati dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, unito al passaggio al sistema contributivo, si devono finanziare massicciamente servizi per l’infanzia di qualità su tutto il territorio, che consentano alle donne che non sono licenziate di non uscire “volontariamente” dal mercato del lavoro per l’impossibilità di coniugare esigenze lavorative e cura dei non autosufficienti.
Diciamo che flessibilità non è una parolaccia, ma solo se il giunco si china in tutte le direzioni: anche quella delle lavoratrici, cui le esigenze produttive possono venire incontro avendone anche dei vantaggi.

Potremmo tediarvi con una valanga di studi e di dati che recentemente si stanno preoccupando di dimostrare che un modello di crescita che esclude le donne non funziona e che l’Italia ha un disperato bisogno di sfruttare appieno i propri talenti, femminili e maschili, per riuscire a ripartire. 
Noi però vogliamo lasciarvi con una storia di rubinetti e conciliazione.
C’è un’azienda italiana, la Jesse, che fa rubinetti belli e tecnologici, costano un po’ ma meno di altri nella stessa fascia. La Jesse ha ridotto i costi non tagliando gli stipendi dei dipendenti, ma innovando e acquistando un sistema integrato di magazzino che consente all’azienda di tagliare i costi di stoccaggio. La Jesse fa tutto da sola, ha mantenuto all’interno l’intero processo creativo, sviluppato un proprio team di designer e adottato linee di marketing innovative ed efficaci. Le sue scelte lungimiranti sono state premiate: l’azienda, anche in periodo di crisi come questo, è cresciuta e ha deciso di tenere un referendum per decidere insieme con tutti gli addetti, dagli amministratori al custode dell’impianto, cosa fare degli extraprofitti.

Hanno scelto di creare un asilo nido aziendale. 
Anche quelli che non hanno figli. Anche i creativi, che potrebbero rivendicare come proprio il successo del prodotto. Anche gli amministratori, che sono gli artefici di questa società e del suo successo.
Questa è la risposta che vorremmo per l’8 marzo.
Innovare il modo di pensare, e di vivere nella realtà. Tutto il resto è retorica.