mercoledì 7 marzo 2012

8 marzo, ancora?

C’è da chiedersi perché l’8 marzo 2012 ci sia ancora da parlare di “donne e lavoro”
Non è una domanda oziosa: è necessario interrogarsi sulle ragioni per le quali tanti anni di studi, riflessioni, battaglie ed evoluzioni del pensiero non abbiano condotto a un positivo cambiamento della realtà che ci circonda.
Se si guarda alla condizione lavorativa della donna oggi, sembra di guardare una diapositiva del dopoguerra: le donne vengono pagate meno degli uomini a parità di mansioni, vengono espulse dal mercato del lavoro senza tutele appena restano incinte e non vi rientrano, quelle che non vengono espulse vengono demansionate, e quelle che comunque “riescono”, non sfondano il c.d. “soffitto di cristallo”: non abbiamo segretari di partito donna, non abbiamo presidenti di cassazione donna, non abbiamo presidenti di ordini professionali donna, non abbiamo grandi imprese guidate da donne (salvo per via ereditaria): perché? Grazie alla recente riforma delle pensioni, molte donne rimarranno anche senza pensione. Perché in un sistema contributivo, se nel mondo del lavoro ci entri tardi e non ci resti abbastanza, anche se la cosa non dipende dalla  tua volontà, la pensione non la vedrai mai.
Quindi, ricapitoliamo. Come siamo arrivati a questo punto?
La risposta più facile è che le donne non sono abbastanza brave. Diciamolo, è un’ipotesi di lavoro. La situazione è questa perché le donne e il lavoro non stanno bene insieme, sono un piatto di nouvelle cuisine poco riuscito, che fa schifo a tutti ma quelli radical chic dicono che è originale e tu sembri uno zoticone se dici che preferisci la pizza. Quindi diciamolo, senza falsi pudori: se il ritratto dell’Italia lavorativa del 2012 è ancora questo, una possibile ragione è che sia colpa delle donne, che restano incinte, non lavorano abbastanza o abbastanza bene. Tutte. Molto meglio tornare a un mondo semplice, in cui le donne stanno a casa e si occupano di pulizie, bambini e anziani, che lo sanno fare così bene e poi i soldi per queste cose lo Stato non ce li ha, così liberiamo anche posti di lavoro, che comunque sono pochi.

Vi piace questa risposta? Vi sembra vera? 
 Se non vi piace, se non vi sembra vera, allora dobbiamo cambiare ipotesi di lavoro, e dire che la direzione che ha preso questo Paese da tempo non funziona, e la situazione delle donne ne è l’emblema e non riguarda solo loro. Le donne sono la metà della popolazione e il loro malessere è la cartina di tornasole del malessere del Paese, un Paese nella cui Costituzione, all’art. 1, c’è scritto che è basato sul lavoro, non sull’impresa, non sulla proprietà, ma proprio sul lavoro, e non consentire alla metà della popolazione di lavorare con pari dignità significa avere la metà della popolazione costituita da cittadini di serie B.

Allora proviamo a dire che questo Paese deve fare scelte nuove, capaci di dare risposte intelligenti e creative che siano in grado di farci ripartire, tutti: perché nella rincorsa al ribasso cui stiamo assistendo siamo tutti perdenti, donne e uomini.
Diciamo che vanno duramente punite le imprese che licenziano le donne solo perché sono rimaste incinte, con la stessa brutale sollecitudine con cui è stata bruscamente innalzata l’età pensionabile. Diciamo che, con i soldi risparmiati dall’innalzamento dell’età pensionabile delle donne, unito al passaggio al sistema contributivo, si devono finanziare massicciamente servizi per l’infanzia di qualità su tutto il territorio, che consentano alle donne che non sono licenziate di non uscire “volontariamente” dal mercato del lavoro per l’impossibilità di coniugare esigenze lavorative e cura dei non autosufficienti.
Diciamo che flessibilità non è una parolaccia, ma solo se il giunco si china in tutte le direzioni: anche quella delle lavoratrici, cui le esigenze produttive possono venire incontro avendone anche dei vantaggi.

Potremmo tediarvi con una valanga di studi e di dati che recentemente si stanno preoccupando di dimostrare che un modello di crescita che esclude le donne non funziona e che l’Italia ha un disperato bisogno di sfruttare appieno i propri talenti, femminili e maschili, per riuscire a ripartire. 
Noi però vogliamo lasciarvi con una storia di rubinetti e conciliazione.
C’è un’azienda italiana, la Jesse, che fa rubinetti belli e tecnologici, costano un po’ ma meno di altri nella stessa fascia. La Jesse ha ridotto i costi non tagliando gli stipendi dei dipendenti, ma innovando e acquistando un sistema integrato di magazzino che consente all’azienda di tagliare i costi di stoccaggio. La Jesse fa tutto da sola, ha mantenuto all’interno l’intero processo creativo, sviluppato un proprio team di designer e adottato linee di marketing innovative ed efficaci. Le sue scelte lungimiranti sono state premiate: l’azienda, anche in periodo di crisi come questo, è cresciuta e ha deciso di tenere un referendum per decidere insieme con tutti gli addetti, dagli amministratori al custode dell’impianto, cosa fare degli extraprofitti.

Hanno scelto di creare un asilo nido aziendale. 
Anche quelli che non hanno figli. Anche i creativi, che potrebbero rivendicare come proprio il successo del prodotto. Anche gli amministratori, che sono gli artefici di questa società e del suo successo.
Questa è la risposta che vorremmo per l’8 marzo.
Innovare il modo di pensare, e di vivere nella realtà. Tutto il resto è retorica.

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