domenica 8 luglio 2012

18 politico e il modello italiano

Talvolta assistiamo a grandi battaglie di principio, combattute all’arma bianca sotto la luce dei riflettori. Appena però questi ultimi si spengono, le battaglie si affievoliscono, i compromessi si fanno regola, il rosso delle bandiere sbiadisce in un rosa innocuo, le finzioni linguistiche diventano indispensabili per nascondere i raggiri consumati alle spalle dei lavoratori.
Facciamo il caso della riforma del mercato del lavoro.
Come sempre accade, l’incipit della discussione è stato affidato al “poliziotto cattivo”. Con la faccia truce, intima: l’articolo 18, quello che tutela i lavoratori da licenziamenti senza giusta causa, va tolto, perché “è un freno agli investimenti esteri e all’occupazione” (sic!).
Vagli a spiegare che pure l’emiro del Qatar, in visita in Italia, ha recentemente sottolineato che il nostro problema è la corruzione pubblica diffusa, e non lo Statuto dei lavoratori. Vagli pure a spiegare che persino in Italia, dove la logica fa meno presa di un dibattito sulle tendenze filosofiche dell’antico Egitto, dire che l’occupazione aumenta facilitando i licenziamenti rischia di sembrare una battuta di cattivo gusto.
La minaccia del poliziotto cattivo è molto chiara: anche se il giudice dovesse accertare che il licenziamento era privo di giusta causa, il lavoratore non avrebbe più diritto al reintegro (come invece accadeva, grazie all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori). In pratica, una porta spalancata ai licenziamenti per antipatia, o peggio.
La reazione a queste parole era stata netta e sacrosanta: “l’articolo 18 non si tocca”, “giù le mani dallo Statuto dei Lavoratori”, “se cambiano l’articolo 18 fermiamo il Paese”.
Ma forse chi diceva queste parole non ci credeva fino in fondo, dal momento che poi, quando si è presentato il “poliziotto buono”, si è mostrata inopinata disponibilità ad accettare una porcata denominata “male minore”.
Il poliziotto buono presentava questa proposta: applichiamo in Italia il “modello tedesco”, che prevede la possibilità di reintegro (dipende dalla discrezionalità del giudice) ma consente comunque i licenziamenti per “motivi economici”.

Fermiamoci un attimo. Consentire il licenziamento per motivi economici è una grande idea, nel momento in cui gran parte delle aziende italiane è in evidenti difficoltà economiche: significa mettere in un solo colpo milioni di lavoratori “sotto schiaffo” del datore di lavoro.
Ma non basta. Prendiamo un imprenditore che evade le tasse, accumulando profitti in nero. Molto probabilmente, il bilancio della sua azienda sarà addirittura in perdita (fittizia). Grazie a quel bilancio falso - fattispecie che, en passant, è pure depenalizzata di fatto - l’imprenditore disonesto avrà anche il privilegio di poter licenziare qualche lavoratore poco gradito, adducendo “motivi economici”. Non è meraviglioso?

Ma quel che è peggio è l’ipocrisia delle parole.
Infatti, non basta applicare un pezzettino del “modello tedesco” per far diventare l’Italia come la Germania. Anzi: applicare un pezzo di un modello pensato per un mercato molto diverso dal nostro rischia di creare gravi penalizzazioni per i lavoratori. Il modello tedesco, infatti, prevede qualche non trascurabile differenza dal “modello italiano”.
Ad esempio, la busta paga media di un lavoratore cinquantenne non specializzato in Germania è pari a 2.680 euro. In Italia, ci attestiamo per lo stesso lavoro a 1.450 euro. Praticamente, la metà.
Ad esempio, in numerose grandi aziende tedesche, i sindacati partecipano al consiglio di sorveglianza, contribuendo così a ogni singola scelta aziendale: dalle grandi strategie, alla destinazione degli utili, fino alla politica di assunzioni.

Ma quale “modello tedesco” abbiamo importato? Pochi giorni fa, un ministro “molto tecnico” ha chiesto la sottrazione di una settimana di ferie per tutti, in modo da alzare il PIL nazionale dell’1%. Un genio. Peccato che la Germania (visto che si parla tanto di “modello tedesco”) sia il penultimo paese europeo per giorni lavorati pro capite ogni anno. Invece, sempre in termini di giorni lavorativi annui per lavoratore, il Paese dove si lavora di più è - indovinate un po’? - la Grecia!
Se poi si guarda anche a certi provvedimenti, al taglio delle buste paga, delle pensioni, della scuola, della sanità, degli statali, viene il dubbio che qualcuno abbia scambiato le etichette: dicendo di importare il modello tedesco, ha importato quello greco.
Poco male, si dirà: se le parti sociali guardano il merito dei provvedimenti, come possono non accorgersi dello scambio?
Ma se le battaglie sindacali si combattono per motivi ideologici, perché il copione prevede questa finzione quando i riflettori sono accesi, finiscono presto nel cestino del dimenticatoio. Basta un europeo di calcio, qualche allarme sui destini dell’Euro, gli ombrelloni che cominciano ad aprirsi e nessuno si accorge più di nulla:  tutti si affrettano a piegare il capino, fingendo di aver “quasi vinto” la battaglia, rassegnati al “meno peggio”. Le belle bandiere vengono riavvolte con cura, pronte per la prossima sceneggiata di “lotta dura e intransigente”.
Questo non è il modello tedesco, e nemmeno quello greco.
E’ il modello italiano. Non è meraviglioso?

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